TRA BEN AFFLEK E IL BAR DELLA MADRE MORTA

Ho visto per la prima volta le opere di Antonio Manta, che lo conoscevo da pochi mesi. Avevo avuto modo di incontrare la sua potenza lavorativa, la sua tenacia nel risolvere le difficoltà pratiche dei lavori creativi e la sua dura e sommessa umanità. Così rara tra fotografi e artisti. Così fuori moda. Era il primo maestro incontrato nella mia vita che si infuriava a sentirsi chiamare Maestro, salvo poi a soffrire se gli mancavano di rispetto.

Questo però riguarda la simpatia, una regione al polo opposto dalla critica d’arte.

Il primo giorno che ho scaricato dalla mail queste foto alcoliche di Antonio Manta ammirai la sua capacità di fotografo. Sentii che erano belle foto. Come è possibile, mi domandai la notte stessa, che possiamo trovare belle delle foto di situazioni così brutte? Queste immagini di Manta provano con più efficacia delle parole come l’Io di una persona sola, povera, infelice, priva di pratica spirituale, di sostegni religiosi, cerchi rifugio in un bar, una bettola, una caverna dell’anima.

Pensai che fossero da ricondurre al mondo di Dioniso e alle sue ebrezze che nessuno ha celebrato meglio di Rubens con fauni, satiri e Bacchi. E gli proposi subito un titolo semi ironico per la sua raccolta: Bar Dioniso. O Dioniso bar. Ma mi sbagliavo: il corrispettivo pittorico di queste foto non è Rubens ma Beacon, così come il corrispettivo fotografico di Michelangelo è Salgado non Mappelthorpe.

Il giorno dopo quando feci stampare le foto da un service, mi venne in mente per associazione, non per ragionamento, la copertina di un libro del celebre psicoanalista francese André Green, sul narcisismo. Mi sembrò un’associazione fuori posto perché nei volti disabitati e spesso beckettiani dei ritratti di Manta dominano la disperazione e il vuoto, non certo la contentezza di piacersi e di piacere di Narciso, il bel ragazzo che Caravaggio ha ritratto con occhi perduti nello specchio della pozzanghera su cui si china. Occhi innamorati di sé. Magari non felici ma certo soddisfatti. Invidiabili.

E nemmeno c’entrava il narcisismo gruppale, sanguigno, ubriaco, festoso che corre dai Saturnalia medievali messi in musica da Horf nei Carmina Burana fino alle canzonacce della società dei magnaccioni che si divertono: Portece ‘naltro litro, che noi se Io bevemo - e poi jarisponnemo: Embé, embé? Che c’è? - E quando er vino - embé - ciarriva ar gozzo - embè - ar gargarozzo - embè - ce fà ‘n ficozzo- embè - pe’ falla corta, pe’ falla breve, - mio caro oste portace da beve, da beve, da beve, olè!

Invece nessun personaggio di Manta sembra innamorato di sé stesso e nemmeno dei suoi amici e del suo gruppo. Nessuno sfotte l’oste in coro. Anzi.

La settimana dopo andai da Antonio e vidi finalmente le sue stampe delle sue foto. Fu allora che misi a fuoco anche il libro di Green, di cui ricordai il titolo preciso: Narcisismo di vita Narcisismo di morte.

Green infatti è stato il primo psicantropo a parlare di un narcisismo di morte osservando la presenza di pulsioni mortifere nei soggetti che, alla ricerca dell’amore, del gioco e dello scambio, sostituiscono l’erotizzazione della propria immagine e la fuga dagli altri. Nella droga o nell’alcool con gli esiti che ci ha spiegato la nostra comune amica, Luciana Santioli. Tutte cose che nel bar Dioniso non ci sono e non ci devono essere.

Quel giorno misi a fuoco anche un’altra sindrome descritta e spiegata da Green: La Madre Morta. Una delle sue definizioni più audaci e innovative che infatti ha riscosso e continua a riscuotere consensi in tutte le scuole di psicoterapia e psicoanalisi.

Di che si tratta?

La madre morta è il fantasma che entra nella psiche del bambino quando un dolore colpisce sua madre e la Commedia (nel senso che Aristotele dà alla parola nella sua Poetica) si trasforma in Tragedia: anni fa conobbi una donna, già felice per decenni, così colpita dall’abbandono del marito, che aveva deciso di traferirsi nella tragedia e che da allora poteva concepire nuove possibilità di commedia solo come farsa.

Per capire il concetto di Green non leggete il suo libro. Guardate le foto di Manta. Il biberon o il bicchiere mezzo pieno si svuotano nelle mani dell’infante, e la madre diventa un personaggio assente, senza energia, impossibile da spiegare e ricaricare. Una fonte di entropia che porta al sovrainvestimento di un pensiero inutile, a scapito della vita emotiva. Una madre che causa sofferenze in-spiegabili, in-utili e in-comprensibili. Collosa come le bollette da pagare non come il cane che ci fa le feste.

Non ci pensai più finché, un mese dopo, feci un sogno o meglio lo ricevetti dall’inconscio.

Nel sogno mi trovavo in un gigantesco spazio ectopico, fuori dal tempo e dallo spazio che navigava nel cielo come l’Arca Russa, il film meraviglioso di Alexander Sokurov, fatto di un solo piano sequenza nel museo dell’Ermitage. Solo che la scena era al polo opposto dei locali suntuosi di una reggia coi loro tesori d’arte, le dame, gli ufficiali in alta uniforme, l’orchestra e i balli. La scena era un assemblaggio di tutti i localacci tristi e poveri in cui Manta ha fotografato i suoi personaggi nel mondo: l’Africa, l’India, l’Asia. Era insomma una Grande Madre Morta. Grandissima e con il suono assordante del silenzio di una musica senza Dio e senza divinità pagane o pre-istoriche.

La sola cosa bella era che tutti i protagonisti delle foto di Manta si facevano compagnia e formavano un gruppo. Avevano un senso di appartenenza umana. Poi un grande colpo di scena: entrava un ospite inatteso ed era Ben Affleck, l’attore-regista premio Oscar per Argo, quello di Batman, Genio Ribelle e Pearl Harbor… Ma non entrava come attore interprete di un ruolo. Entrava come persona reale, figlio, padre, marito, regista e produttore. Entrava come uno dei personaggi più famosi del mondo dello spettacolo e come uno dei registi e produttori più ricchi di Hollywood. Tutti i ruoli insieme, compreso il fatto di avere grossi problemi con l’alcool per cui Affleck nella realtà è spesso ricoverato per fare programmi di recupero. Nel sogno gli andavo incontro e gli dicevo: Che piacere incontrarti. Argo è uno di miei film preferiti. Forse perché l’hai preso da una storia vera?

E lui rispondeva. Sì. E’ vero.

E io gli domandavo: Come mai sei qui? Sono qua per Antonio Manta, io cerco sempre i migliori direttori della fotografia. Senza quella foto non posso guarire.

Ottavio Rosati (Psicologo - Regista)